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Liliana Moro – Àncóra

a cura di Agata Polizzi
18 Febbraio – 1 maggio 2015 Opening 18 Febbraio 18:00/21:00

Basta un accento per cambiare tutto, la forma, il senso e la direzione. Non esiste mai una sola possibilità, e Liliana Moro proprio sulla molteplice lettura delle cose, ha centrato molta parte della sua ricerca, cercando, forse senza volerlo davvero trovare, l’equilibrio che la perdita dei punti di riferimento, impone.
Quale potrebbe essere del resto oggi il punto di riferimento? Non credo esista una definizione univoca, se c’è, è certamente molteplice e soggettiva. Sempre vera e sempre differente.
Liliana Moro consapevole di questa instabilità, ha attraversato il postmodernismo con il suo pensiero asciutto e controllato, la sua indagine attenta e rigorosa verso il mondo esterno ha prodotto nel tempo una ricerca capace di osservare la società contemporanea nelle sue dinamiche più in ombra, mantenendo un distacco solo contemplativo e mai emozionale.
Una distanza rispettosa della realtà osservata, un atteggiamento che organizza con lucidità il rapporto esistente tra alcuni elementi complessi dell’esistenza, rendendo possibile un contatto con ciò che sta tutto intorno.
Una ricerca che applica una modalità di attenzione molto alta, sempre vigile su quanto accade o potrebbe accadere.
Uno sguardo, quello dell’artista, non certo indulgente, ma pieno di densità.
À n c ó r a , la seconda personale di Liliana Moro alla Galleria Francesco Pantaleone Arte Contemporanea di Palermo, è un progetto calibrato sullo spazio, una messa in atto di oggetti intesi come materializzazione di “visioni”, presenze che occupano un posto preciso, tracce di qualcosa che non si vede. Un lavoro di alternanza costante tra il vuoto e il pieno, tra il buio e la luce, tra il movimento e la stasi, tra il tutto e il nulla.
Liliana Moro rintraccia le contraddizioni presenti nella percezione comune delle cose, nell’idea d’instabilità. È così che la ciambella di salvataggio, camera d’aria che rappresenta sicurezza e salvezza, diventa invece macigno, oggetto spiazzante, privato della sua potenzialità, che trattiene nelle sue pieghe una verità invisibile. Scultura dall’anima ferrosa, con un suo preciso momento, che ha bisogno d’attesa. Materia messa a nudo, svelata nel suo intimo, nella sua carne viva. “Salvagente che non salva” si fa portavoce di un contrasto forte, reso tale dall’artista che idealmente enfiata dentro qualcosa di solido e pesante, in senso opposto alla leggerezza dell’aria, alla sua volatilità.
Liliana Moro suggerisce probabilmente attraverso questo “cemento fragile”, la misura di cosa l’uomo viva dentro, nella disarmonia permanente di un presente privo di contorni precisi.
Incertezza che ritorna nell’installazione decentrata e solitaria del lampione capovolto, luce rimanda al pavimento, luce non diffusa, fredda che guarda in basso, una sorgente luminosa poco trascendentale. Una luce che ha senso nel contatto con la terra, che illumina là dove serve, per non cadere, per non perdersi. Una luce non eclatante, che nella sua semplicità, indica una possibile via.
Una luce che si contrae nel neon Àncóra e diventa parola ossimoro, parola oggetto che nuovamente si discosta dalla sua funzione semantica; opera doppia, parola possibile in entrambe le sue affermazioni: sostantivo che descrive un oggetto che trattiene e stabilizza, avverbio che definisce ciò che perdura nel tempo o spazio, ciò che è in divenire.
Limite semantico sottile, come il vetro del neon, oggetto che ha un peso specifico pari alla sua instabilità.
Tutto ritorna, tutto è possibile nella visione di Liliana Moro, in bilico tra confini reali e ideali, replicati e complementari.
Liliana Moro chiude Àncóra con un epilogo che, nella dimensione di un linguaggio ipertestuale, riferisce, così com’è e senza infingimenti, un’esperienza collettiva.
Si tratta della serie di quattro collage in cui la purezza spietata delle immagini, stordisce. Istantanee tratte dalla cronaca e dalla storia, dalla vita. Immagini crude che, sottratte alla distrazione, diventano algide.
Liliana Moro raggela con una narrazione rigorosa, viscerale seppur fredda e impassibile, che appare in modo così netto per tutto il percorso della mostra, affermando profondamente la consapevolezza della sua gravità.