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MILANO ’90

Mario Airò, Stefano Arienti, Maurizio Cattelan, Mario Dellavedova, Massimo Kaufmann, Armin Linke, Amedeo Martegani, Vedovamazzei, Luca Vitone

a cura di Giorgio Verzotti

26 Ottobre – 15 Gennaio 2022

 

Una storia milanese

 

Non saremmo lontani dal vero se dicessimo che tutto è cominciato da una fabbrica dismessa, a Milano.  Nel quartiere Isola adesso c’è il Bosco Verticale di Stefano Boeri e molti edifici nuovi sorti durante l’Expo, ma fino al 1984 c’era, insieme alla discoteca Nuova Idea oggi anch’essa scomparsa, la Brown Boveri, o per meglio dire c’era l’edificio, perché la fabbrica di locomotive e tram era già stata delocalizzata. Lo spazio viene occupato da un gruppo di artisti che giusto a metà del decennio, nel maggio del 1985, si presentano al pubblico dell’arte con una mostra collettiva che è rimasta famosa perché ha segnato un nuovo inizio.

Da qui, un rivolgimento che ha interessato l’intera scena artistica nazionale, e non solo: tutto a partire da un gruppo di artisti che si autogestiscono, giovani, ancora fuori dal Sistema, e tutti operanti a Milano.  In un simile nuovo fermento emerge una nuova generazione che comprende Stefano Arienti, Amedeo Martegani (presenti in quella mostra), Mario Dellavedova, Massimo Kaufmann e naturalmente molti altri.

Aggiungiamo che ci sono già in città altri spazi autogestiti e operanti con i giovani: il Care Of, a Cusano Milanino, nell’hinterland, e Viafarini, nella via omonima, operativi l’uno dal 1987 e l’altro dal 1991, non solo organizzano mostre, ma i due centri uniscono le forze e nel 1995 creano un Archivio di documentazione sui giovani artisti italiani divenuto col tempo una fonte di informazione irrinunciabile. E nasce dalla volontà degli artisti anche lo spazio di via Lazzaro Palazzi, che raccoglie un gruppo di ex allievi di Luciano Fabro docente a Brera; fra loro Mario Airò e Liliana Moro troveranno un ampio riconoscimento

Di un po’ tutti loro si occupa ben presto Corrado Levi, figura poliedrica di intellettuale, docente di architettura, saggista, teorico del movimento gay, collezionista per tradizione famigliare, critico e animatore culturale nonchè artista lui stesso. Levi apre uno studio in corso San Gottardo dove espongono gli artisti che abbiamo citato e altri ancora, da Milano come Maria Vittoria Chierici, da Bologna come Bruno Zanichelli, da Torino come Pier Luigi Pusole.  Levi riuscirà anche a smuovere le istituzioni: in una città dove ancora manca un museo d’arte contemporanea degno di questo nome, c’è però il PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, la nostra Kunsthalle insomma, che nel dicembre 1986 affida al curatore/artista la mostra Il Cangiante: qui Levi chiama alcuni di quei giovani e li mette a confronto con la storia e l’internazionalità, da Otto Dix a Carla Accardi, da De Pisis a Jeff Koons.

E’ grazie a questa generazione creativa che Milano torna ad essere una città d’arte, un luogo propulsivo e non solo ricettivo di nuove idee: non era più successo dai tempi di Fontana, scomparso nel 1968, negli anni Settanta questo primato lo aveva assunto se mai Torino, con l’Arte Povera. Dalla metà degli Ottanta invece questa sorta di nuovo rinascimento milanese attira diversi artisti da fuori città che vengono a vivere e lavorare qui: Vanessa Beecroft e Luca Vitone da Genova, Chiara Dynys da Mantova, Gabriele Di Matteo e Vedovamazzei da Napoli, Maurizio Cattelan da Padova, e poi naturalmente ci sono i milanesi di nascita, come Marco Mazzucconi e Armin Linke…

Dove ci sono gli artisti, lì il Sistema funziona, e negli anni Novanta a Milano arrivano anche i galleristi: giovani a che loro e anche loro determinati, non esitano a lavorare con i nuovi artisti anche se giustamente cercano da subito un riscontro internazionale che per molti in effetti arriverà.  La città diventa un punto di incontro, l’occasione, per esempio per i critici, di conoscere di persona molti artisti italiani e internazionali che vengono ad esporre in questi spazi. Non succedeva da anni cosi frequentemente, se si eccettuano ovviamente gli ospiti delle gallerie più storiche e affermate.

Insomma, gli anni Novanta fanno dimenticare la Milano di Tangentopoli e la trasformano in una capitale, almeno in senso culturale, e non solo relativamente alle arti visive.

Ma questi artisti cosa fanno, cosa propongono, per diventare cosi presto i protagonisti di una nuova stagione creativa che non è certo solo milanese ma che qui torva un importante ambito di confronto? A dire il vero fanno cose molto diverse l’uno dall’altro, alcuni non hanno neanche frequentato le accademie e arrivano all’arte dai percorsi più impensabili.  Però hanno un tratto comune che li differenzia dalle generazioni appena precedenti, i protagonisti della Transavanguardia. Per questi ultimi, dipingere o scolpire significa esprimere il proprio mondo interiore, i fantasmi dell’inconscio, le proprie mitologie personali. I nostri artisti più che esprimere intendono comunicare, l’opera è un progetto, il risultato di un percorso ideativo che si concretizza in una proposizione consapevole e aperta all’interpretazione. Di comune poi hanno una inclinazione verso i linguaggi più sperimentali, ereditati dalle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, nei confronti delle quali però non sentono alcuna sudditanza. Anzi, i loro precedenti, i maestri, li rispettano ma con distacco, forse perchè sono consapevoli di appartenere a un’epoca diversa, più disincantata.

Se ne vedono gli esempi nelle opere degli artisti presenti in questa mostra, che risalgono a quei primi anni e in un certo senso ricostituiscono parzialmente quello che era il panorama creativo dell’epoca.

Stefano Arienti rielabora immagini preesistenti, è interessato a ri-creare più che a creare e l’iconografia a cui si rivolge è quella della produzione mass-mediale, quella che ci bombarda senza sosta di messaggi visivi. L’artista reagisce manipolando quelle immagini, e il termine indica proprio un uso manuale, diretto, attuato mediante strumenti semplici e procedure elementari. Aghi per bucherellare i profili delle figure, pongo colorato da applicare sui colori stampati, sculture ottenute piegando in vario modo le pagine dei libri o dei giornalini di fumetti.

E ancora, immagini riportate con la tecnica del ricalco, definite con i siliconi applicati a carte veline. Fin dall’inizio insomma Arienti allestisce un controcanto ludico all’impero dei segni e al suo potere di fascinazione. Le sue rielaborazioni manuali, a volte dirette in senso distruttivo per via di taglierine o gomme per cancellare, valgono come rivalsa sulla tecnica della riproducibilità seriale, in una sorta empito umanistico fortemente ironizzato.

Un atteggiamento simile è alla radice delle prime opere di Amedeo Martegani, ed era tutta rivolta all’arte intesa come materia aulica, il “grande racconto” del Valore Fondante. Ricordiamo ancora le comuni riproduzioni a colori dei capolavori del passato modificati con tratti ad acquarello, in modo da ottenere Raffaello più Bello, Rubens Mutans o Watteau Nouveau. Altrimenti, l’artista aveva presentato ritratti pittorici di volti scolpiti presenti in una tomba regale della cattedrale di Saint Denis, rifatti in pittura con lo stile di Richter o Polke, cioè presentati come fotografie mosse o con l’applicazione del puntinato delle immagini a stampa. Tutto questo però rifatto in modo volutamente approssimativo, impreciso, non tecnicamente impeccabile. L’artista si auto-ironizza, si propone nelle vesti del giovane incapace perfino di imitare bene. Il “ritratto dell’artista da giovane” che Martegani proponeva allora era carico insomma di autoironia.

Diverso invece lo spirito di Massimo Kaufmann. Con un passato di critico, decide di confrontarsi direttamente con la pratica artistica, lavorando però in una dimensione colta e senza cedimenti alla fascinazione delle immagini mediali. I piccoli trittici di pesi da bilancia che vediamo in mostra rimandano a un topos classico della nostra pittura, la rappresentazione dell’Annunciazione, che l’artista desume da maestri come Beato Angelico.  I colori blu, rosso e oro alludono al cielo, alla terra e alla loro unione significata nel confronto fra l’Angelo e Maria, mentre il peso di ciascun oggetto è rapportato agli altri secondo le proporzioni armoniche della sezione aurea. Quell’iconografia interessava all’artista in quanto veicola l’idea di un nuovo universo di senso generato da un atto di parola, l’annunciazione appunto, che qualifica e distingue la cultura occidentale.

Anche Mario Dellavedova si è distinto per l’attrazione verso la parola, o meglio verso le relazioni fra la parola e l’immagine che l’artista costruisce per far emergere libere associazioni di idee.” Ahi, disperata vita”, le prime battute di un madrigale di Monteverdi, veicolano un significato preciso, che però diventa ambiguo, prestandosi a interpretazioni diverse e imprevedibili, se quelle parole sono formate da fiori coloratissimi (finti, e la cosa accentua l’effetto) applicati alla parete. Così la preziosa scatola in palissandro con inserti d’argento che mostra al suo interno l’associazione fra le sillabe Gio e Ca ci invita, almeno apparentemente, a praticare passatempi piacevoli, o forse a non prenderci troppo sul serio…

Per Mario Airò il motore primario del lavoro è la sfera dell’affettività. Il punto di partenza per la creazione di un’opera è sempre qualcosa che all’artista accade di vivere direttamente; l’opera anzi nasce dall’urgenza di comunicare ciò che colpisce la sfera esistenziale. Il mondo indagato dall’artista è conoscibile attraverso l’emotività più che col ricorso al pensiero razionale, così gli elementi che compongono le opere, spesso complesse, nascono come intensificazione di segni preesistenti (immagini, brani musicali, sequenze da film) rinati a nuova vita. L’opera è per Airò una sorgente di pensieri e si apre all’interpretazione dell’osservatore, fluttua nel mare dei significati con una voluta accentuazione della sua indeterminatezza.

Anche VedovaMazzei (Simeone Crispino e Stella Scala) fanno ricorso alle tecniche più diverse e spesso ad oggetti comuni che adottano cambiandoli di segno, con un intento più aggressivo, canzonatorio, a volte provocatorio.  Il duo si è dato quel nome perché, dicono, si sono imbattuti in una lapide cimiteriale spezzata che recava quel nome durante una passeggiata. Hanno visto in cielo due uccelli scontrarsi in volo, e da ciò hanno realizzato una serie di lavori. Vero o no quel che dicono, le loro opere vivono spesso di queste associazioni casuali, come la barriera di materassi usati e la bicicletta, fattori incongrui che consentono però di elaborare associazioni libere, di porsi come gli scenari di rappresentazioni possibili, di narrazioni appena suggerite.

Luca Vitone è invece calato nella storia e intende interrogarla relativamente al contesto sociale dei luoghi in cui espone le sue opere, che spesso hanno origine proprio dal confronto col luogo e con le comunità che lo abitano.  Ciò avviene fuori da ogni idealismo e mettendo in luce le contraddizioni di ordine sociale su cui la comunità si costruisce. Così mentre lavora al recupero delle culture popolari, per esempio la musica e il canto proponendo registrazioni sonore, nello stesso tempo documenta la perdita di autenticità di quelle creazioni attraverso la loro ghettizzazione nell’ambito del folklore o del consumo turistico.  Nei lavori in mostra, Vitone tematizza quella che lui stesso definisce perdita topologica, un mancare collettivo di consapevolezza storico-politica, che visualizza nelle sue carte topografiche rivolte alla parete e quindi illeggibili o del tutto prive di indicazioni.

Un’indagine sul reale è anche quella compiuta da Armin Linke con la fotografia. In quei primi anni l’artista lavorava in collaborazione con altri, sue sono per esempio le impeccabili foto delle performance di Vanessa Beecroft. Ma da allora iniziava la sua indagine sugli aspetti della vita sociale in quelli che erano i primordi di un mondo sempre più condizionato e poi dominato dalla tecnologia digitale. Le immagini della fiera del sesso svoltasi a Milano preludono alla ricerca che è arrivata ad accumulare circa ventimila immagini in vent’anni di viaggi compiuti in tutto il villaggio globale così come si è configurato nei decenni che ci separano dai primi anni Novanta. Questo, senza che mai la ricerca smettesse di essere anche un’interrogazione sulle specifiche possibilità espressive e documentarie del mezzo fotografico.

Le prime azioni di Maurizio Cattelan si possono definire atti di pirateria informazionale che operano nelle sfasature dei sistemi di trasmissione dei saperi specializzati, operanti tanto nel macrocosmo dei rapporti socioeconomici quanto nel microcosmo del sistema dell’arte, vissuto come parte integrante del sistema delle informazioni. L’artista interviene infatti sui valori accreditati, sui dispositivi di attribuzione di valore invalsi nel sistema, sui suoi cerimoniali, con l’intento di irriderli tutti, a cominciare da se stesso. Da un lato sfrutta gli aspetti mitici del ruolo dell’artista, costringendo per esempio la galleria a chiudere, e il gallerista a trovarsi un altro ufficio, in modo che l’orsacchiotto che corre sul filo (la sua opera) si veda solo dalle finestre del cortile. Dall’altro si rappresenta in termini auto-denigratori in manichini o in maschere in lattice, come nella congerie di Spermini, la sua faccia miniaturizzata, moltiplicata e disseminata sulla parete, a metà fra il carnevale e l’incubo.

Dieci artisti che testimoniano, con le opere realizzate entro gli anni Novanta, di un’epoca specifica, vissuta in una città specifica, con linguaggi che si sono formati in quel contesto e che sono diventati la cifra stilistica di un’intera generazione, al di là della diversità dei contenuti elaborati. Sono ancora attuali queste opere? Hanno mantenuto, piu di trent’anni dopo il loro esordio, la loro freschezza, la carica innovativa che avevano all’inizio? Le guardiamo ancora oggi come lavori curiosi, stimolanti e magari ancora provocatori? Gli artisti sono stati un po’ tutti ampiamente riconosciti, lo avremmo detto, osservando i loro inizi?

E’ un po’ questa “verifica dei poteri”, il potere di fascinazione e di convincimento che assume un’opera d’arte contemporanea, il motivo di questa mostra, e anche l’idea di creare una sorta di détournement spazio-temporale: portare un brano di storia artistica di Milano a Palermo, in un contesto sociale e storico affatto diverso.  L’ispiratore è stato Francesco Pantaleone, che ha sede a Palermo e a Milano, con un’operazione che esula dai consueti motivi commerciali di una galleria per farsi piuttosto proposta culturale. Che questa sia valida però non sta a lui dirlo, né all’estensore di queste note.

Come sempre è il pubblico, sono gli osservatori che daranno valore alle opere, alla loro storicità visti gli anni che ci separano da loro, e con esse giudicheranno anche alle osservazioni che leggono qui.

 

Giorgio Verzotti