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Threesome #6 Luce | Stefano Arienti – Plamen Dejanoff – Georges Perec

Da Un uomo che dorme di Georges Perec

 

Non appena chiudi gli occhi comincia l’avventura del sonno. Al posto della solita penombra nella stanza, volume oscuro che si interrompe qua e là, dove la memoria identifica senza sforzo le vie percorse mille volte, rievocandole a partire dal quadrato opaco della finestra, resuscitando il lavabo a partire da un riflesso, e lo scaffale grazie all’ombra un po’ più chiara d’un libro, delineando la massa più buia degli abiti appesi, dopo un po’ subentra uno spazio bidimensionale, come un quadro dai limiti incerti che formi un angolo col piano dei tuoi occhi, quasi poggiasse non del tutto perpendicolarmente sul colmo del tuo naso; ed è un quadro che, all’inizio, può sembrarti uniformemente grigio, anzi neutro, senza colori né forme, ma che con ogni probabilità, di lì a poco, risulta possedere almeno due caratteristiche: la prima è che si inscurisce più o meno secondo che tu stringa più o meno forte le palpebre, o più precisamente: come se la contrazione esercitata sull’arco delle sopracciglia quando chiudi gli occhi ottenesse l’effetto di modificare l’inclinazione dell’inquadratura rispetto al tuo corpo, quasi che l’arco delle sopracciglia funzionasse da cerniera, e di conseguenza, benché questa conseguenza non sembri dimostrabile se non con l’evidenza, modificasse la densità o la qualità dell’oscurità da te percepita; la seconda caratteristica è che la superficie di tale spazio non è affatto regolare, o, più precisamente, che la distribuzione o diffusione dell’oscurità non si dà in modo omogeneo: la zona superiore è palesemente più buia; mentre la zona inferiore, quella che ti sembra più vicina, benché sia ovvio che le nozioni di vicino e lontano, alto e basso, davanti e dietro, hanno ormai smesso di aver un senso preciso, per un verso è decisamente più grigia, ossia non tanto più neutra, come credi in un primo momento, ma proprio più bianca, e per l’altro verso contiene o sorregge una, due o più specie di sacche, di cap- sule, un po’ come l’idea che ti fai, per esempio, di una ghiandola lacrimale, con gli orli sottili e ciliati, sacche al cui interno si agitano, tremolano e si contorcono dei lampi bianchissimi, talvolta molto sottili, come finissime striature, talvolta molto più grossi, quasi grassi, come vermi.

 

Tutto inizia con una sveglia che suona e con un appuntamento disatteso. Da questo momento un giovane uomo abbandona la lotta contro il tempo, abdica alla sua stessa esistenza per entrare in una dimensione di assoluta atarassia. Georges Perec si rivolgerà a lui con quel “tu” che impone il distacco anche narrativo, una voce fuori campo come un eco di una vita sbiadita, vita fatta di reclusione volontaria, indifferenza, passeggiate notturne nella penombra di Parigi, momenti pieni di dettagli e di vuoto. La riflessione di Perec sul tempo è attuale e sconvolgente, l’abbandono della vita come gesto a metà tra forma depressiva e ribellione, tentativo di dissolversi nello spazio diventando ombra di sé stessi. Attuale Perec perchè nell’angoscia dell’uomo nascono molti sentimenti, molti dei quali contribuiscono a mutare la società in cui viviamo con una rapidità incontrollabile, attuale perchè la scelta del distacco dal mondo spoglia la vita di bellezza e di senso, la rende priva di orizzonti, la rende gabbia in cui nulla importa, nulla serve nulla è degno. Un uomo che si perde ma mentre si sofferma sui piccoli apparentemente inutili dettagli della sua quotidianità da recluso, continua in realtà a descrivere la vita nelle piccole cose che esistono anche se stanno nell’ombra. La grandezza di Perec è questa, dissimulare nell’oblio l’incapacità dell’uomo di sfuggire a sé stesso, alla vita e al tempo che esistono a priori e che sfuggono a qualunque controllo. Stefano Arienti nelle sue “Meridiane” applica al tempo un’attenzione invece poetica, la sua non è misurazione ma contemplazione. L’Arte che pure delle cose del mondo fa parte non vuole spiegazioni e non ne chiede, allarga il campo visivo verso confini che sono remoti e talvolta sconfina in essi. L’intenzione di Arienti ha ragione nella sospensione del giudizio, nell’ascetica ricerca di un equilibrio che preserva dagli stravolgimenti di certe esistenze intrappolate dalla frenesia e dal rumore continuo, in cui nulla ha un significato definito. Anche il tempo nell’opera di Arienti si scompone nel dettaglio delle immagini, le Meridiane conservano il fascino della scienza e l’imprevedibilità del sentimento, ed è nell’intervento raffinato e quasi impercettibile dell’artista che si delinea la sottile leggerezza di una narrazione che accenna, per poi lasciare a chi guarda l’interpretazione e il sogno.

Plamen Dejanoff, invece artista sociale, che della riflessione sul capitalismo ha fatto la sua cifra, che della frenesia della società contemporanea si è fatto osservatore e interprete, intelligente e tagliente la sua riflessione sul progresso che macina vittime e che l’artista studia nei sui meccanismi con modo quasi ossessivo e molto critico. Dejanoff presta attenzione ai materiali, considerati nella loro natura non solo concettuale ma anche formale, come ad esempio nell’operai mostra, in cui all’opalescenza e brillantezza dell’oggetto ne esalta la natura “energetica” e luminosa, utile, elementi che rendono l’opera molto pop e al contempo “funzionale”.

 

Agata Polizzi